Io (Foto Massimo Annibale)Cari lettori di Planet Country, non abbiatevene a male. L’amico Gianluca Sitta mi ha chiesto di scrivere le mie impressioni sulla edizione 2015 della “Country Night” di Gstaad ed io spero di non abbassare troppo la qualità delle cose che leggo sempre su questo ottimo sito internet. Una cosa la devo dire subito, però, sperando di non inimicarmi i rappresentanti delle scuole di ballo o i semplici appassionati ballerini che avranno la sventura di leggermi: questo è il festival che adoro di più in assoluto perché si svolge in una località da sogno dell’Oberland bernese all’interno di una tensostruttura moderna da 3000 posti a sedere dall’acustica quasi perfetta; perché si sta seduti (non ci sono posti in piedi); perché mi godo la musica, il canto, ogni dettaglio delle esibizioni, gli artisti e le loro band. Ma soprattutto perché non sono distratto dalle torme di cowboys e cowgirls che scalpitano in line dancing distraendomi dal godimento dello show. Si badi bene: dico questo da ex ballerino, che per anni ha adorato calcare le piste in legno (e non solo in legno…) dei più disparati festival negli anni d’oro del Country Music Club of Italy (della cui sede di Milano io fui tra i fondatori) e quindi non parlo per partito preso. Adoro ovviamente anche altri tipi di festival, come quello di Interlaken o come quello nostrano di Voghera in cui invece i posti sono rigorosamente in piedi e chiunque è libero di ballare; ma Gstaad l’ho nel cuore. Di sicuro perché il festival riesce sempre a dare una panoramica piuttosto esaustiva dei diversi stili musicali esistenti all’interno del genere country, chiamando ogni anno (grazie a sponsor danarosi e un budget a disposizione piuttosto considerevole) dai due ai quattro artisti americani di prima classe. La star di questa 27esima edizione, svoltasi gli scorsi 11 e 12 settembre – ma io ero presente solo alla serata di sabato 12 – è stata Chris Young, a Gstaad nell’ambito di un suo tour europeo, arrivato insieme a Patty Loveless e ai Gatlin Brothers, che invece sono arrivati a Gstaad in esclusiva europea. Assieme a loro, è stata data la possibilità di salire ed esibirsi sul palco principale ad un artista indigeno, Philipp Fankhauser, che ha completato la line up del festival.
Patty Loveless (Foto Massimo Annibale)Cominciamo proprio da lui, Fankhauser. Bluesman svizzero di una certa levatura (e ovviamente piuttosto conosciuto dai locali) poco c’entra a rigor di logica con una manifestazione che si chiama “Country Night”. Ciononostante questo “giovane” 51enne nato a Thun, coadiuvato da una strepitosa band di sette elementi, fa le cose migliori in termini di intrattenimento divertendo e divertendosi tra blues, soul e gospel (avete presente i Blues Brothers?) occhieggiando ripetutamente al suo mentore musicale Johnny Copeland (bluesman texano col quale ha girato gli States in lungo e in largo prima della sua prematura scomparsa nel 1997) e chiamando spesso in causa il pubblico, per scherzarci o per cantare insieme. In una occasione, cantando “Nobody But Me”, mi salta giù dal palco e percorre il corridoio centrale della hall avanti e indietro chiedendo l’aiuto della platea per il ritornello (che alla fine avevamo imparato tutti a memoria). Da citare tra le altre “Talk To Me”, i lenti blues di “Try My Love” e “Too Little Too Late” e molto altro materiale originale davvero interessante, reso ancor più particolare dalla sua voce roca ma non troppo e dai migliori membri della sua band svizzero-americana, vale a dire per quanto mi riguarda il “pazzo” Richard Spooner alla batteria (dovevate vederlo mentre suonava!) e l’incredibile trio di fiati Till Grünewald al sassofono alto, Lukas Thoeni alla tromba e Daniel Durrer al sassofono baritono che mi sono dovuto spellare ad applaudire: eccezionali. Ma non posso non citare anche Hendrix Ackle all’hammond e al pianoforte – nel blues un elemento immancabile. Riff da panico e grande interpretazione di uno show durato quasi 20 minuti più del previsto, proprio a causa dell’entusiastica risposta del pubblico. Fankhauser non è stato il primo artista ad uscire sul palco bensì il terzo ed infatti la chiusura della serata, affidata al nome di punta Chris Young, si è protratta fin quasi all’una. Questo è uno dei difetti della maratona di Gstaad, che ti costringe a ore piccole per ascoltare il “pezzo forte” del cartellone. Ma facciamo un piccolo passo indietro: ad aprire attorno alle 18 sono arrivati i texani Gatlin Brothers, tre fratelli simboli e bandiera di un certo genere di country che oggi ormai non c’è più, molto simili come matrice musicale ai Bellamy Brothers, con i quali condividono sicuramente longevità artistica e popolarità nel mondo. Ovviamente la stella trascinatrice del trio è il fratello Larry, al cui seguito Steve e Rudy sono ormai rodati Gatlin Brothers (Foto Massimo Annibae)come un orologio svizzero (per l’appunto…). Completano la band un basso, una tastiera e la batteria: tre musicisti che nella ironica presentazione dei Gatlin vengono tutti dalla Svizzera (sono invece americanissimi). Sessant’anni di palco non sono pochi ma il trio pare non sentirne troppo il peso: lo show vola via tra grandi successi quali “Night Time Magic” con cui aprono il loro set (dopo aver cantato l’inno della Svizzera!), “Houston”, “I Just Wish You Were Someone I Love”, lo swing “The Lady Takes The Cowboy Everytime”, la stupenda ballata “I’ve Done Enough Dying Today” (su cui la strepitosa voce di Larry Gatlin fa sentire ancora tutto il suo peso), “Denver” (sul cui titolo scherzano col pubblico a riguardo della definizione di Denver come “la città alta un miglio”, pregando chi tra il pubblico è americano di spiegarla a chi non lo è) fino alla chiusura dopo quasi un’ora con “All The Gold In California” tra un tripudio di applausi e richiesta di encore. Dopo Fankhauser, quella dei fratelli Gatlin è stata l’esibizione che mi è piaciuta di più, anche perchè infarcita quà e là di storie personali e chiacchiere con il pubblico; lo sapevate per esempio che Johnny Cash, grande amico di Larry, era solito chiamarlo “pilgrim”, pellegrino, dal nome del suo primo album in studio, registrato nel 1973, che aveva molto impressionato Cash? E sapevate che in quell’album era contenuta una canzone dal titolo “Bitter They Are, Harder They Fall” che passò quasi inosservata quando fu pubblicata come singolo e che sarebbe stata destinata al dimenticatoio se tre anni dopo Elvis Presley non avesse deciso di inciderne una propria versione, dandole la notorietà che meritava (e molti soldi a Larry, ovviamente, grazie ai diritti di autore, come egli stesso specifica prima di cantarla)? In quella occasione Larry seppe che Presley avrebbe inciso il brano proprio da lui (o meglio, dal suo produttore) che lo chiamò al telefono per avvertirlo e congratularsi. Emozioni rare. Tanto di cappello a mostri sacri come i Gatlin Brothers!
Chris Young (Foto Massimo Annibale)Venti minuti di pausa ed ecco entrare in scena la regina della edizione, Patty Loveless, di ritorno a Gstaad cinque anni dopo la sua prima apparizione, anch’ella con un’imponente band di otto elementi uno dei quali mi fa venire la pelle d’oca quando lo vedo. Si tratta di John Jarvis, che si accomoda al suo piano quasi fosse un essere umano come tutti noi. Trattasi invece (per chi di voi non lo sapesse) di un famosissimo autore nonché cantante e bravissimo musicista che ha scritto due tra le più belle canzoni country del secolo scorso. Vale a dire “Love Can Build a Bridge” e “I Still Believe In You”, portate al successo rispettivamente da The Judds e da Vince Gill nel 1992 e nel 1993 e con le quali Jarvis vinse (per due anni di fila!) il Grammy come miglior canzone country. Mi ritrovo a saltare con lo sguardo da Mrs. Loveless a Mr. Jarvis durante lo show e gli altri quasi non esistono, nonostante la background vocalist, Vickie Vaughn, sia molto giovane e piuttosto carina… Ma a quasi 60 anni Mrs Patty è sempre un esempio supremo di stile, grazie ed eleganza nel sacro solco delle Tammy Wynette e delle Loretta Lynn. Dio ce la conservi. A fine concerto però anche Pete Finney alla pedal steel e Todd Lombardo alla chitarra elettrica avranno fatto la loro porca figura. Mrs Loveless apre con “Timber I’m Falling In Love” e poi in un’ora di concerto sciorina quasi una via l’altra le migliori perle della sua quasi trentennale carriera, da “On Down The Line” a “You Don’t Seem To Miss Me” (che ovviamente dedica allo scomparso George Jones, con il quale la incise in studio), da “Why Baby Why” a “Halfway Down”, da “You Can Feel Bad” a “Lonely Too Long”, da “Blame It On Your Heart” (sulla quale tenta di far cantare al pubblico il difficile ritornello, senza riuscirci) a “You Don’t Even Know Who I Am”.
A chiudere la serata arriva Chris Young, emergente realtà del nuovo panorama country e delle tendenze del mercato discografico. Un trentenne che ha esordito nel 2006 dopo aver vinto il programma televisivo “Nashville Star” (quello che da noi si chiamerebbe un “talent”) e pubblicato finora quattro album, cominciando con un country legato al più bel neotradizionalismo per sviluppare poi via via uno stile sempre più influenzato dal rock e dal pop (secondo me, visto da che parte tira il vento a Nashville, si sta furbescamente “Lukebryanizzando” … attendo con impazienza il nuovo album in uscita a fine anno per la verifica… ). La scaletta né è stato un esempio lampante: accanto a suoi “classici” come “Voices”, “Who I Am With You”, “Neon”, “I Can Take It From Here”, You” e “Tomorrow” sono apparse canzoni più “picchiate” come “A.M.” (con cui ha aperto il suo set, manco a dirlo…), “AW Naw” sino a spingersi su una cover degli ZZ Top, “Sharp Dressed Man”. La band come sempre però è da urlo: presente anche qui come nella band di Mrs. Loveless (nei sogni dei miei concerti country più belli non manca mai) la pedal steel, agli ordini del bravo Terry Crisp, due chitarre affidate a Ryan Haas e Kevin Collier, la tastiera di Mason Embry, il basso di Steve Sells e alla batteria il bravo Monty Bradford. Sono tutti bravi, accidenti, e pare di sentire suonare il disco a casa tanto sono rasenti la perfezione. Young parla poco, meno di tutti, a parte quando deve comunicare a chissà chi chissà cosa attraverso un microfono posto su un’asta in fondo al palco, fuori dai coni di luce, tra un brano e l’altro. Forse parla al tecnico del mixer per chiedere di sistemare il settaggio di qualche strumento o della sua voce. Si diverte, ma non tanto con il pubblico quanto con i membri della sua band e l’esecuzione della scaletta assume il sapore di un bel compitino eseguito alla perfezione ma asettico, nonostante una voce davvero bella, capace di toni baritonali non comuni. In conclusione, qualcosa nella edizione 2015 della Country Night è mancato. Promossi a pieni voti Fankhauser e i Gatlin, rimandati a settembre Young e Mrs. Loveless, come se la loro anima fosse altrove (nonostante il carisma e la personalità che quest’ultima emana ogni volta dal palco e che si sono percepiti sempre forti). Mancavano energia, slancio e un po’ più di voglia di dare spettacolo; non basta salire su un palco e cantare quindici canzoni in maniera impeccabile per fare uno show degno di questo nome. Io avrei preferito un po’ più di calore, che invece è mancato fino alla fine (addirittura Mrs. Patty ha lasciato il proscènio senza aver mai stretto una mano e senza firmare neanche un autografo ai numerosi fan che si sono accalcati sotto il palco, a differenza di Young). In ogni caso non è una bella sensazione lasciare il tendone del festival con l’amaro in bocca pensando a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Ci rifaremo il prossimo anno. Speriamo. (Massimo Annibale)