Più di sessantanni di carriera, un’infinità di dischi e collaborazioni, un songbook corposissimo e un curriculum di attore che l’ha visto recitare in una trentina di produzioni cinematografiche: la vita artistica (e non solo) di Willie Nelson, classe 1933 da Abbott, Texas è una di quelle da ‘prendere con le molle’ e da considerare come partrimonio fondamentale della musica americana. Willie si è sempre contraddistinto per non adeguarsi pedissequamente alle regole del business, puntando in direzione spesso contraria la propria bussola artistica rispetto all’establishment che in quel momento cercava di inquadrarlo in un preciso ambito. La sua profonda curiosità, le sue radici decisamente variopinte (da Hank Williams a Django Reinhardt passando per Frank Sinatra, Lefty Frizzell e Louis Armstrong), il suo spirito libero e privo di costrizioni hanno caratterizzato un percorso sicuramente non privo di battute a vuoto ma sempre improntato ad una ricerca di stimoli nuovi e diversi che lo hanno portato ad esplorare sonorità inusitate e sorprendenti. La sua è sempre stata, fin dalla ‘gavetta’ nashvilliana che a partire dal 1960 ne ha fatto un autore di enormi successi (“Crazy”, “Funny How Time Slips Away” e “Pretty Paper” su tutte) una strada fortemente caratterizzata dalla voglia di cercare qualcosa di nuovo e stimolante, dando spazio alla sua indole irrequieta e smaniosa di emergere. Il ritorno nel nativo Texas nei primissimi anni settanta, proprio in coincidenza con la nascita di una creativa scena musicale ‘hippie’, assieme ad un certo rifiuto della sempre maggiore influenza pop nella musica country prodotta a Music City ha fatto si che Willie Nelson diventasse tra i principali promotori del cosiddetto movimento ‘outlaw’, la risposta texana ai suoni melliflui di Nashville con il ritorno alla scarna e ruspante tradizione. Con dischi dalla notevole forza poetica e musicale come “Shotgun Willie”, “Phases And Stages”, “Red Headed Stranger” e soprattutto “The Outlaws” con Waylon Jennings, Jesse Colter e Tompall Glaser, vero manifesto di quella magnifica stagione, Willie divenne una delle forze guida di un panorama fortemente alternativo nei confronti del ‘potere costituito’ e dei suoi vincoli. Willie non si è mai fermato a crogiolarsi sugli allori, ha giocato le proprie carte con grande convinzione e coraggio impegnandosi spesso in battaglie non propriamente ‘popolari’ come quella per la legalizzazione della marijuana e per lo sviluppo di tecnologie volte allo sfruttamento del ‘bio-diesel’ con la conseguente diminuzione delle emissioni di gas. Soprattutto il primo di questi ‘impegni’ gli ha provocato più di un problema con la giustizia senza però intaccare la sua ferma convinzione nel perseguire una campagna di sensibilizzazione che in parecchi Stati americani negli ultimi anni ha visto sempre più usata la cannabis per motivi terapeutici e/o ludici. Gustosa in questo senso è stata la sua autobiografia del 2013 (con prefazione del grande amico Kinky Friedman) intitolata Roll Me Up and Smoke Me When I Die: Musings from the Road. Ambientalista, supporter dei diritti della comunità LGBT, critico nei confronti del governo americano per la guerra in Iraq, tra i fondatori dell’appuntamento di Farm Aid per aiutare economicamente i contadini in difficoltà, animalista convinto, Willie Nelson rappresenta un esempio quasi unico in un ambiente come quello della country music dove spesso queste idee sono state considerate non in sintonia con i valori condivisi. I numerosi fermi ed arresti che ha subito a partire dalla metà degli anni settanta non hanno frenato la sua carriera musicale, l’apprezzamento da parte di un pubblico sempre più ampio e vario a mano a mano che Willie ha toccato sonorità (apparentemente) contrastanti come reggae, jazz, pop, blues, tex-mex e rock. Lui e la sua fidata chitarra chiamata ‘Trigger’ sono un binomio indivisibile caratterizzato ancora, alla tenera età di 87 anni, da voglia di scoprire e cercare nuovi stimoli. (Remo Ricaldone)