Il manto verde del pascoli del nord viene pettinato da un vento teso che porta con sè voci lontane che noi, viaggiatori del tempo e dello spazio, ascoltiamo con la mente gia tesa all’evocazione di atmosfere ancora autentiche dopo secoli di percorsi tracciati e percorsi ancora da tracciare. Se guardiamo bene vediamo comparire decine di macchie scure sull’erba verde di pioggia, gialla di sole o bianca di ghiaccio. Sono i mustang selvaggi che vivono ancora liberi nell’open range. Sono creature che racchiudono in sè la contraddizione della terra d’oltreocenalo, costantemente sospesa tra passato e futuro. Ma questi cavalli non sono una proiezione cinematografica di effigi del passato, al contrario sono creature straordinariamente reali, autonome, forti di secoli dedicati all’unico sforzo della sopravvivenza. Uno sforzo non indifferente. 49.000 mustang popolano oggi il range statunitense, eredi di specie iberiche ed in gran parte discendenti delle linee di sangue importate dall’invasore spagnolo. Grazie anche all’allevamento delle Popolazioni Native, questi branchi sono cresciuti ed oggi danno prova della loro resilienza, della natura mai del tutto domata di terre che il Governo ha reso percorribili e calpestabili da questi esemplari, metafora di un Paese che vuole definirsi, malgrado le molte contraddizioni, simbolo della libertà.
Peccato che, purtroppo, dietro ogni favola esista un meccanismo che la plasma a vantaggio della legge del mercato, strappandone spesso l’anima incontaminata. La leggenda dei mustang selvaggi infatti, nonostante sia regolata meticolosamente dal Bureau of Land Management (BLM), ancora infastidisce coloro che trovano l’utilizzo del pascolo da parte di questi animali penalizzante per le mandre appartenenti ai privati. A partire dal 1971, con il ”Wild Free-Roaming Horse and Burro Act”, le istituzioni hanno infatti gestito le mandrie selvatiche, controllando il numero di capi, spostandoli per mezzo di elicotteri e costruendo vaste recinzioni temporanee per il controllo e la distribuzione dei gruppi. I movimenti animalisti hanno spesso contestato il numero di mustang raccolti nei recinti (circa 13.000 in un anno, con lo scopo di ridurre la popolazione selvaggia da 49.000 a 27.000 nei prossimi cinque anni). Sfortunatamente, malgrado gli sforzi per sovrintendere una situazione che, per sua natura, dovrebbe essere lasciata libera di evolvere per non comprometterne l’essenza stessa, le morti non accidentali di mustang si sono moltiplicate negli ultimi anni, lasciando intuire che la presenza dei cavalli selvaggi, per quanto affascinante e straordinaria davanti agli occhi di chi ne coglie l’importanza, risulta invece scomoda, dannosa e perfino nociva a coloro che lamentano i danni alle proprietà ed il consumo dei pascoli spesso poveri delle praterie assolate. La forma degli incisivi degli equini infatti, a differenza di quella denti dei bovini, riuscirebbe ad estirpare l’erba più a fondo, rendendo un pessimo servizio ai mandriani ed agli allevatori.
Ecco quindi che, palesemente contro la legge americana che vieta il macello dei cavalli ed il consumo della loro carne per scopi alimentari, ugualmente nell’ombra decine di mustang vengono uccisi e spediti in Canada o in Messico, dove tali attività non sono illegali.
Avvicinare l’immagine di una scatoletta di cibo per cani alla nobiltà di creature che si muovono libere come ultimo baluardo della libertà di un sogno, costituisce senza dubbio una delle antitesi più dolorose per noi che amiamo credere ancora in quel dipinto idilliaco. Fino alla scomparsa dell’ultimo mustang, infatti, continueremo a vivere nella convinzione che dietro quel paesaggio non ci siano lotte di confine, leggi federali e battaglie animaliste, ma solo il soffio del vento tra le criniere che volano nella stessa direzione delle nuvole. (Sara Albanese)