Scrisse alcune delle canzoni più belle della musica country, ottenne per ben trentotto volte la vetta delle classifiche Billboard e contribuì enormemente a forgiare il suono crudo di Bakersfield, in antitesi al pentagramma più morbido di Nashville. Merle Haggard fu soprattutto la voce della cultura okie.

La California era divenuta una sorta di terra promessa per tanta gente colpita dalla Dust Bowl e dalla Depressione, un paradiso di presunte opportunità di lavoro e facili scalate sociali, un sogno che s’era alimentato persino coi ricordi della Gold Rush. I migranti vi si riversarono ad una velocità sorprendente, poi si resero conto che non tutto era come lo avevano immaginato, che non c’erano case decenti per loro, che il lavoro che abbondava era quello sottopagato e che la società californiana era avvelenata dal razzismo. I residenti non accettavano di buon grado i nuovi arrivati, li trattavano alla stregua di parassiti, fannulloni e zotici. In men che non si dica i migranti divennero i capri espiatori di molti mali sociali. Così si andò costituendo una nuova identità, quella di lavoratori che, Oklahoma o no, agli occhi dei californiani erano tutti okies. Molti di essi si adattarono a vivere in strada, in aree abbandonate, in vagoni merci, tende, baracche e container, poi sorsero i “Labor Camps”, istituiti dalla Farm Security Administration nella seconda metà degli Anni Trenta. Qui nacquero ballate come “Sunny California” di Mary Sullivan e “Sunny Cal” e “Arizona” di Jack Bryant, arie traboccanti di frustrazioni economiche, di nostalgia per la casa lasciata, di delusione per la discrepanza tra la vita immaginata in California e la realtà. Le esperienze, la vita, il disagio degli okies trovarono una potente forma di espressione nella musica. Le canzoni cristallizzavano le difficoltà in cui vivevano, assorbivano ogni aspetto del loro status di outsiders, manifestavano l’incapacità di assimilarsi ad un contesto che li denigrava e traducevano insofferenza ed un forte rifiuto di atteggiamenti oppressivi e discriminatori.

Haggard di quella generazione di okies compose una vera e propria colonna sonora. Decine di storie di povertà, stenti, indigenza e sradicamento echeggiarono come ricordi e lontane voci nei suoi versi, assieme alle sofferenze d’amore ed ai problemi del lavoro. Brani struggenti in cui si cantava di binari di treni e celle di prigione. Haggard conosceva quella vita, ne aveva sperimentato le profondità più oscure. Era nato in California, ad Oildale, il 6 aprile del 1936, ma i suoi erano di Checotah, Oklahoma. Vissero in un vagone merci convertito in casa, fermo accanto a dei binari in disuso. Suo padre lavorò come falegname per le ferrovie di Santa Fe mentre sua madre, profondamente religiosa, si prese cura della casa fino alla morte del marito, quando Merle aveva nove anni. Fu allora costretta ad accettare un lavoro come contabile per un’azienda di confezionamento di carne. Nel giro di qualche anno, il ragazzo, rimasto solo, conobbe i primi guai con la legge ed iniziò ad entrare e uscire dalle strutture correzionali per piccoli furti e stati d’ubriachezza. Nel 1956, ormai ventenne, dopo aver commesso una rapina, fu arrestato e rinchiuso nel carcere di San Quentin per tre anni. Tornato a Bakersfield, Haggard si procurò un lavoro e iniziò a suonare coi suoi amici, brillando come una stella nel firmamento di Bakersfield.

Certe esperienze confluirono in “Hungry Eyes” del 1969 che racconta una storia di disagio attraverso gli occhi di un bambino migrante che vive le conseguenze dell’ingiustizia economica e sociale del reinsediamento: “Una capanna coperta da una tenda in un campo di lavoro affollato… mio padre ha cresciuto una famiglia lì, con due dure mani da lavoratore e ha cercato di nutrire gli occhi affamati di mia madre… noi ragazzi eravamo troppo piccoli per renderci conto che un’altra classe di persone ci ha messo proprio sotto”. Qualcosa di simile c’è in “Daddy Frank (The Guitar Man)” del 1971: “La casa era solo un accampamento lungo l’autostrada. Un cassone del pick-up era dove dormivamo. Non ricordo neanche una volta di aver sofferto la fame, ma ricordo la mamma che cucinava per terra”. L’anno dopo Haggard registrò un altro capolavoro del genere, “They’re Tearin’ The Labor Camps Down”, con un monologo sui cambiamenti sociali che aveva trovato all’uscita dal carcere, a cominciare dalla scomparsa di parecchi campi di lavoro: “La capanna costruita da mio padre era scomparsa… Oh stanno demolendo i campi di lavoro”. Ancora del 1971 in “California Cottonfields”, cantò di nuovo i ricordi dal punto di vista di un bambino. La canzone fu scritta da Dallas Frazier, la cui famiglia si era trasferita dall’Oklahoma alla California durante la metà degli Anni Quaranta: “La mia memoria alla deriva risale alla primavera del ’43, quando ero solo un bambino tra le braccia di mamma. Mio padre ha arato il terreno e ha promesso che un giorno avremmo lasciato questa fatiscente fattoria in Oklahoma. Poi una notte ho sentito mio padre dire a mia madre che finalmente aveva risparmiato abbastanza per andarsene. La California era il suo sogno, un paradiso, perché aveva visto delle foto sulle riviste che glielo dicevano… Mancavano solo pochi giorni ad un cambio di fortuna, ma l’unico cambiamento che ricordo di aver visto in mio padre è stato quando i suoi capelli scuri sono diventati grigio argento”. Allo stesso tempo però Haggard sfuggì ad ogni classificazione con un brano che spiazzò molti come “Okie From Muskogee” e che ancora oggi viene interpretato a volte come un attacco ai figli dei fiori, altre come una caricatura delle mentalità più chiuse dei piccoli centri urbani. Si trattò forse di una esaltazione dei valori perduti ai quali l’okie era ancora così profondamente legato dal risultare conservatore e fornire la base operaia al Partito Repubblicano in un momento in cui i movimenti civili sconvolgevano l’America. Non era una presa di posizione e la stessa politica di Merle Haggard rimase sempre non allineata, ma “Okie From Muskogee” divenne l’inno della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, quella che vedeva sfilare alla finestra hippy e pacifisti senza capirli, senza condividerne le ragioni. Ronald Reagan concesse al cantante il perdono totale e incondizionato per i crimini del passato, Richard Nixon lo invitò alla Casa Bianca nel 1973 per esibirsi alla festa di compleanno della moglie Pat.

Quella volta Merle aprì la sua performance con “California Blues” di Jimmie Rodgers, un omaggio alla terra natia che aveva in comune con Nixon, ma soprattutto l’affermazione di una eredità musicale chiara. Già nel 1969, infatti, sulla copertina di “Same Train, Different Time”, Haggard si era affiancato all’effige del padre della country music che sorride e fa il pollice in su, con una chitarra in grembo ed un berretto da ferroviere in testa. Haggard come Rodgers fu soprattutto un cantante della ferrovia, della migrazione, dei viaggi, della fuga e della rinascita, è chiaro in “Mama Tried”: “La prima cosa che ricordo di aver conosciuto è un fischio solitario e il sogno di un giovane di crescere per viaggiare su un treno merci che lascia la città, non sapendo dove è diretto. Nessuno poteva farmi cambiare idea ma mamma ci ha provato”. I treni del suo più celebre brano rappresentano la ribellione, l’inquietudine di conoscere il mondo e se stesso. I treni di “Workin’ Man Blues “rappresentano ancora questa esigenza di fuga: “A volte penso di andarmene, faccio un po’ di casino. Potrei buttare le mie bollette dal finestrino e prendere un treno per un’altra città, ma torno a lavorare, devo comprare ai miei figli un paio di scarpe nuove”. I treni rappresentano un’esigenza di libertà smarrita a volte collettiva, nazionale come in “Here Comes the Freedom Train”, altre volte personale come in “Good Old American Guest”: “Sono stanco della corsa al successo, voglio tornare al ritmo lento e sentire un treno merci veloce che sferraglia e rotola. Voglio vivere i miei giorni come un vagabondo…”. E ovviamente in questa celebrazione del viaggio non poteva mancare l’epos degli hoboes con “The Hobo”, “I Take A Lot Of Pride In What I Am” e la struggente “Hobo Bill’s Last Ride” del suo eroe.

Nelle canzoni mise l’anima, sempre, e fu per questo che Buck Owens non si stancò mai di affermare che era lui il miglior cantante country. Parlare del rapporto tra Haggard e la mente che fu dietro l’esplosione della scena di Bakersfield è un lavoro arduo perché gli intrecci sono tanti, continui e complessi. Basti dire che Bonnie Campbell, rotto il matrimonio con Buck, sposò in seconde nozze Merle, con cui aveva maturato una lunga storia di collaborazioni musicali e conosciuto il successo di “Just Between the Two of Us”. Haggard era stato il bassista dei Buckaroos di Buck Owens, lui stesso ne aveva proposto il moniker, poi qualcosa accadde e le strade dei due più noti nomi della scena di Bakersfield si divisero, almeno apparentemente. Per la Blue Book Music, infatti, Haggard continuò a registrare innumerevoli pezzi, ma voci di animosità e gelosie professionali si protrassero per trentasette anni, poi entrambi furono visti un venerdì sera al Kern Country Fairgrounds di Bakersfield, in un locale strapieno. Era l’estate del 1995. A quel concerto assistettero oltre cinquemila persone d’ogni età. Salì dapprima Owens, toccò poi a Merle che, dopo i classici “Okie di Muskogee” (di proprietà della Blue Book Music) e “Mama Tried”, chiamò accanto a sé Buck e Dwight Yoakam per eseguire “Beer Can Hill”, un inno a Bakersfield, la città dove avevano imparato a ballare e combattere da okies. ( Angelo D’Ambra)