Nacque a Meridian, Mississippi, nel 1897, e morì giovane, dopo una breve ma prolifica carriera discografica tranciata dalla tubercolosi, a soli trentacinque anni. La sua fu un’esistenza difficile, fatta di lavori pesanti, continui viaggi, malattia, privazioni e disagi familiari.

A tredici anni era già scappato da casa due volte. Sua madre, Eliza, era morta quando lui ne aveva solo cinque anni e Jimmie era venuto su con dentro un’inquietudine ribelle e scaltrita. Aaron, il padre, gli trovò un primo impiego nelle ferrovie per cui lavorava, la Mobile and Ohio Railroad, e così provò a dargli un futuro. Dall’età di quattordici anni fino ai ventotto anni, Jimmie si guadagnò da vivere con diverse mansioni per le ferrovie e viaggiò in gran parte del sud. Sui treni iniziò a strimpellare la chitarra, incitato da operai e hoboes, i lavoratori itineranti che si spostavano negli States grazie alle rotaie, conoscendo le loro vite, apprezzando le loro storie, imparando le loro canzoni. Jimmie era uno di loro. Quella vita era la sua, quelle storie erano le sue storie, quelle canzoni scalpitavano sotto la sua pelle.

A ventisette anni contrasse la tubercolosi e ciò lo costrinse ad abbandonare il lavoro. Iniziò allora a pensare che la musica potesse fornirgli un’utile alternativa di guadagno e si dedicò a cantare in spettacoli viaggianti e club. Nel 1927 si esibì per la prima volta alla radio, ad Asheville, nella Carolina del Nord, e vi tornò alcuni mesi dopo con un gruppo chiamato Jimmie Rodgers Entertainers con cui si assicurò un programma settimanale. Quello stesso anno la band si recò a Bristol, nel Tennessee, per un provino davanti a Ralph Peer della Victor Talking Machine Company che intendeva selezionare nuovi artisti di ciò che chiamava “hillbilly music”. Gli si presentò una coppia di virginiani dall’aria innamorata, accompagnata da una donna incinta. Erano A.P. Carter, sua moglie Sara e sua cognata Maybelle. Arrivò poi un gruppo di giovani capeggiati da un ragazzo smilzo dall’aria malaticcia. Furono due grandi rivelazioni, la Carter Family e Jimmie Rodgers. Entrambi lo convinsero, registrarono e firmarono per la Victor Records, eppure erano così diversi. I Carters cantavano di sentimenti positivi, di famiglia, di amore, di fede, Rodgers no, lui era espressione di un mondo differente, quello dei giocatori di dadi, dei coltelli, dei pugni, del whiskey.

Peer restò profondamente impressionato dalla sua timbrica intensa e cupa, dalle modulazioni a volte flessuose e a volte aspre, da quel tono caldo e comunicativo, ma soprattutto dalle abili contorsioni in stile yodel che costellavano le esecuzioni di Jimmie. Sgranò gli occhi e drizzò le orecchie davanti a quella successione rapida di vocali aperte e chiuse, gorgheggiate e in falsetto, sfiorando note alte, alternate ad altre più basse. Bastava così. Rodgers era sotto contratto.

Fino ad allora l’industria discografia in ambito country aveva dato alla luce solo vecchie canzoni popolari, quelle eseguite da Fiddlin’ John Carson, Riley Puckett e Uncle Dave Macon. Adesso c’era una nuova strada da percorrere, un country forte di influenze blues e folk, che si rinfrescava nel linguaggio e sussultava di sensazioni ruvide e schiette, che si contraddistingueva soprattutto per le fioriture dello yodeling in un brano di inizio secolo dal titolo “Sleep, Baby, Sleep”. Peer lo capì subito e portò la sua scoperta nella Trinity Baptist Church di Camden, New Jersey, per registrare. Un disaccordo tra i membri della band lasciò, però, Jimmie da solo davanti ai microfoni. Lui non demorse, abbracciò la sua chitarra e liberò la voce.

Registrò qualcosa di consueto, una railroad song, un ordinario pezzo di Tin Pan Alley, un brano chitarristico e poi finalmente spuntò fuori una canzone esplosiva, il brano che avrebbe generato un’ondata impetuosa di consensi, la beffarda stornellata destinata a divenire celebre come “Blue Yodel No 1”.

Jimmie stette seduto e cantò: “T per il Texas, T per Tennessee – T per Thelma, quella ragazza che ha fatto di me un relitto. O-lay-ee-o, lay-ee-ay, lay-ee…”. Davanti agli occhi degli assistenti che avevano seguito il talent scout si spalancò una finestra sulla realtà vera del proletariato bianco del sud rurale, nulla di artificioso, niente di studiato. Jimmie Rodgers, con lo stesso idioma di quella gente ed una carica di disperazione distruttiva, poetava: “Se non mi vuoi, non c’è problema perché posso avere più donne di quanto possa trasportare un treno passeggeri… e mi comprerò una pistola, fintanto che sarò in piedi e sparerò alla povera Thelma, solo per vederla saltare e cadere…”.

Quella registrazione lo consegnò alla celebrità. I suoi spettacoli iniziarono a fare i sold out. Tutta l’originalità di Rodgers confluiva nelle note vibranti di ciò che chiamò “blue yodels”. Non fu lui il primo musicista a inserire quel “yo de lay hee-ho” tra le strofe delle sue canzoni, ma fu quello che portò al successo lo stile come un personalissimo marchio di fabbrica, mescolandolo alle strutture blues del Mississippi. A quel blue yodel ne seguirono numerosi altri.

Tra il 1927 e la sua morte nel 1933, registrò più di cento canzoni, tutte brevi, nessuna superava i quattro minuti e poche erano quelle con l’accompagnamento di una band. Si trattava spesso di testi tormentati e privi di finali lieti. Rodgers non sentì mai il bisogno di offrire una morale o una chiave di lettura e ciò, insieme ad un’immagine sempre sorridente e socievole, nonostante la malattia, gli propiziò le simpatie del pubblico negli anni bui della Grande Depressione. Narrava di amori falliti, di povertà, di gente finita in prigione e di viaggi in treno in cerca di fortuna. “Mio padre è un ubriacone mia madre è morta e io sono solo un bambino orfano… Ora se a me ascolterai racconterò la storia triste di come il bere rum e l’inferno del gioco d’azzardo hanno portato via mio padre”, questa era “A Drunkard’s Child”, invece in “My Time Ain’t Long” rimò: “Andrò al patibolo all’alba. Dicono che sto per essere impiccato. Attraverso l’apertura cadrà il mio giovane corpo. Oscillerò ad una corda”. Cantava pezzi hobo e canzoni popolari nel suo stile musicale, spesso rielaborate, molte volte cantava chiaramente di se stesso come in “T.B. Blues”: “Ho il T.B. blues… Quando pioveva tristezza… Ha piovuto su di me… Non riesco a mangiare un boccone. Ho quel vecchio T.B. Sto combattendo come un leone, sembra che perderò perché nessuno ha mai sconfitto il T.B. blues”. Ciò creò una totale empatia con la lower-class, con tutta quella gente ridotta al lastrico, prostrati “white, rural and poor”, costretta a viaggiare in cerca di lavoro.

Fu anche un innovatore nell’immagine del cantante country. C’era stata nel decennio una lunga sequela di artisti che avevano adottato a fini commerciali un’immagine country per soddisfare il pubblico rurale, la gente dei villaggi di montagna e quella dei ranch texani, ma Rodgers seguì la sua natura. Si lasciò, infatti, alle spalle il cliché del singing cowboy e spesso si presentò per quello che era, un operaio delle ferrovie, facendo sembrare gli altri cantanti famosi dell’epoca dei posers ridicoli, come se stessero sull’attenti.

Spirò due giorni dopo la sua ultima registrazione, a New York, il 26 maggio 1933. La sua influenza sulla country music però non tramontò. La Columbia Records commissionò un “Blue Yodel” a Riley Puckett, Gene Autry ne incise diversi e artisti come Ernest Tubb, Bob Wills, Bill Monroe, Lefty Frizzell, Merle Haggard, Johnny Cash, Hank Snow, Willie Nelson, come quelli dell’intera scena rock and roll, lo annoverarono tra le loro massime influenze dedicandogli ripetuti tributi. Quando la Country Music Hall of Fame fu fondata, nel 1961, Rodgers fu tra i primi ad esservi inserito, insieme a Fred Rose e Hank Williams. ( Angelo D’Ambra)