La scorsa estate è stata a suonare in Italia a fianco del marito, l’ottimo Michael McDermott, in una serie di concerti in cui abbiamo potuto apprezzare la sua bravura come violinista e come armonizzatrice di melodie vocali a due voci, oltre ad una presenza scenica affascinante. Heather Lynne Horton arriva al suo terzo disco solista con un bagaglio di dieci canzoni in cui magari non c’è un hit che spicca sugli altri ma con una coesione e una forza interpretativa degna di nota, unendo rock e radici, inserendo stimolanti e piacevoli fascinazioni pop e una scrittura intensa e palpitante. La sua musica risulta evocativa, talvolta onirica nelle ballate (come nella sinuosa “Ten Times” per esempio), solida e con il violino in molti momenti protagonista, violino che assume toni classici nella conclusiva e lunga “Lin’s Never-Ending Song”e suadenti cenni folk in “Call A Spade A Spade”. Heather Lynne Horton è affiancata da una serie di musicisti di grande talento, con il citato Michael McDermott a chitarre e piano (e la sua influenza si può percepire in più di un brano dell’album), il bravissimo Will Kimbrough alle chitarre e John Deaderick alle tastiere, sostenuti da una sezione ritmica (Matt Thompson al contrabbasso e Steven Gillis ai tamburi) che quando è chiamata in causa non perde un colpo. Pur non avendo potenziali singoli non mancano i momenti che sottolineano la bellezza cristallina delle atmosfere come in “Beatrix” che si avvicina con il suo sussurro al folk d’oltremanica, in “Sunset Marigold” dove si può percepire la vicinanza con i canadesi Cowboy Junkies, in “After All This Time” posta giustamente ad introdurre la selezione grazie al perfetto intreccio tra melodia e un arrangiamento in bilico tra folk e pop e nella delicata e deliziosa “Six Foot”, passaggi obbligati di un percorso per certi versi catartico per la protagonista e molto interessante per l’ascoltatore attento alle mille sfumature di un album che cresce veramente tanto con gli ascolti. (Remo Ricaldone)