Il 31 marzo del 1952 Gino Latilla incise in italiano una versione da brividi di “Ghost ride the sky”, intitolata “I cavalieri del cielo”. Non era quella la prima volta che qualcosa di country-western venisse suonata in Italia. Tre anni prima, Lucia Mannucci, Virgilio Savona, Tata Giacobetti e Felice Chiusano, il famosissimo Quartetto Cetra, avevano portato al successo una spiritosa filastrocca country, quella “Nella vecchia fattoria” che non era altro che “Ohio (Old Macdougal Had a Farm)”, una folk song inglese divenuta famosissima tra i coloni della regione di Ozark. Il brano, registrato per la prima volta da Gid Tanner e i Skillet Lickers negli Anni Venti, giunse in Europa con l’omonimo cartone della Walt Disney e i Cetra, che per il colosso statunitense avevano già doppiato Dumbo, se ne impossessarono. Alzarono ogni strofa di un semitono e riscrissero completamente il testo, consegnandolo alla tradizione italiana dei canti per bambini (nella stessa pellicola, tra l’altro, gli italiani videro pure Paperino canticchiare la celebre “Oh My Darling, Clementine”, già ascoltata nel 1946 col film “Sfida infernale” di John Ford). È difficile, tuttavia, individuare una primissima canzone country-western italiana. È infatti molto probabile che, sotto le sembianze di uno swing sfrontato e malvisto dalle autorità, già negli Anni Trenta qualcosa sia circolato nel Bel Paese. Quel nugolo di giovani artisti ispirati dai complessi vocali, dai girl groups e dalle jazz bands statunitensi – come il rinomatissimo Trio Lescano, così profondamente influenzato dalle Boswell Sisters e dalle Andrews Sisters – sicuramente dovette riproporre dei brani dei suonatori di fiddler americani.

I Cetra ebbero, però, un ruolo chiave nella diffusione, non solo di musica swing, boogie e rock and roll, ma anche di sonorità country-western. Il quartetto, infatti, celebrò ripetutamente nelle sue canzoni tutta la storia sociale e musicale del Nord America, ricordando, accanto a Rodolfo Valentino, Sinatra ed agli elementi dell’immaginario dixieland, anche i cowboy, gli indiani, Tom Mix e Jesse James. Si prendano ad esempio canzoni come “Vecchia America” e “Conosco un cowboy laggiù nel farwest”. Furono due successi che ottennero grande popolarità. Il primo brano era una vivace composizione di Lelio Luttazzi che passava dallo swing all’evocazione di “Oh! Susanna” e fu cantato dal balconcino dell’ultimo vagone di un trenino che attraversava l’Arizona durante la rivista ‘Gran Baldoria’; il secondo, scritto da Anton Virgilio Savona, suona oggi un po’ come una presa in giro dei sioux, ma il refrain era davvero orecchiabile. Celebre fu pure “Lo zaino di Johnny Smith” del 1954, divertente narrazione di un soldato unionista del Tennessee, in partenza per andare a combattere il generale Lee in nome di Lincoln, che non riesce però a non pensare alla sua amata Mary… una mucca.

Sulla stessa lunghezza d’onda scattante e scherzosa, Natalino Otto cantò di piantatori del Sud, cercatori d’oro e cowboy stile Kansas City in “E l’America è nata così!”, i Cetra, invece, come in grado di scorgere il futuro, si stavano già spostando verso il rock and roll, avevano registrato una versione di “Rock around the clock” e, curiosamente, avevano piegato le loro corde vocali all’accento napoletano di “Pummarola boat” e “Piedigrotta a Broadway” nelle stesse stagioni in cui Renato Carosone, allontanatosi dai sentieri jazz battuti con fedeltà da Buscaglione, sperimentava “Tu vuò fa’ l’americano” e “‘O pellerossa”. Il quartetto, ormai collaudatosi in esilaranti parodie, tornò alle sonorità western nel 1962, con “La ballata di Lazy Boy” per raccontare le vicende di un bravo ragazzo finito nel giro di Jesse James.

L’associazione tra il western e i Cetra, però, si perfezionò nel 1968 quando i quattro furono protagonisti di uno spassoso western parodistico, uno spettacolo televisivo che, per sei settimane, tenne incollati gli italiani allo schermo. Si trattava di una serie in sette puntate, dal titolo “Non cantare, spara”. Lo show, scritto da Leo Chiosso su soggetto di Giacobetti, godette delle musiche di Gianni Ferrio, compositore degli spaghetti-western “Un dollaro bucato”, “Massacro al Grande Canyon”, “Tre dollari di piombo”, “Viva la muerte… tua!” etc.. La sigla fu affidata a Giorgio Gaber che recitò nei panni di Idaho Martin, detto il Meticcio. Per la regia di Daniele D’Anza, accanto ai Cetra (i Four Westeners), a questo musical, ambientato in una inimmaginabile (più che immaginaria) Abilene, lavorarono attori del calibro di Nando Gazzolo, Aroldo Tieri, Renzo Palmer, Luigi Vannucchi e le bellissime Luisella Boni, Valeria Fabrizi e Isabella Biagini. Figurò pure Mina come cantante di saloon. Ad interpretare gli strambi indiani cherokee furono chiamati i Rokes di Shel Shapiro. Fu tutto girato alla Toifa e a Manziana, una settantina di chilometri sopra Roma, nelle stesse location frequentate da Sergio Leone, a Cinecittà, nel “villaggio western” e nel “villaggio messicano”, e ancora a Grottarossa e al Centro di Produzione televisivo di via Teulada a Roma. Lo spettacolo è ancora oggi uno dei più riusciti esempi di estro della televisione italiana, una satira western, fatta di situazioni grottesche e pirandelliane e di risse clamorose, improbabili sparatorie e duri poco credibili, che aprì il genere all’ironia e anticipò Corbucci, Petroni, Castellari e Carnimeo e i successi di Bud Spencer e Terence Hill. A farla da padrone c’era il Quartetto Cetra che registrò tutte le canzoni per le edizioni musicali Curci, compresa l’omonima “Non cantare, spara”. ( Angelo D’Ambra)