Il profilo di Daryle Bruce Singletary, tra le voci più calde e modulate del panorama country della seconda metà degli anni novanta, è stato tra i più ‘ordinari’ e tipici. Da Cairo, Georgia a Nashville, meta obbligata per chi vuole affermarsi in questo genere, attraverso un’infanzia caratterizzata da forti legami familiari e da primi passi all’insegna di influenze gospel in un percorso simile a tanti aspiranti country singers, la carriera di Daryle Singletary ha sempre avuto la coerenza e la genuinità come filo conduttore. Dai primi demo al debutto con il disco omonimo del 1995 in passo è stato fulmineo e pregevole in un susseguirsi di lavori in cui la scelta del materiale da interpretare è da considerarsi impeccabile, aiutato da una voce assolutamente eccellente. Tre dischi per una major, altri quattro prodotti a livello indipendente e lo strepitoso album in compagnia di Rhonda Vincent di cui Planet Country si è occupato lo scorso anno, è questa l’eredità musicale di un musicista che ci ha lasciato improvvisamente e troppo, troppo presto, all’età di quarantasei anni. Un’eredità composta da una produzione di alta qualità dove è impossibile scegliere un disco in particolare, tale è il livello complessivo di un artista che ha fatto dell’onestà e dell’autenticità le sue armi migliori, con il raggiungimento, più volte, della Top 40 di settore con titoli come “I’ll Let Her Lie”, “Too Much Fun”, “Amen Kind Of Love” e “The Note”. Lo ricorderemo per quella voce, per quell’approccio riverente e caloroso nei confronti della tradizione omaggiando suoi mentori come George Jones e Merle Haggard. Un esempio per le generazioni future.(Remo Ricaldone)