Un personaggio come Dana Cooper, almeno qui da noi, rappresenta il classico caso di ‘best kept secret’, per anni, almeno cinque decadi, facendo  musica e creandosi una buona reputazione nel circuito dei club collaborando con artisti del calibro di Lyle Lovett, Hal Ketchum, Kim Richey e Kim Carnes. Dal suo debutto omonimo del 1972 inciso con il supporto dei migliori sidemen del giro di Los Angeles con la più classica delle sezioni ritmiche formata dal basso inossidabile di Leland Sklar e dal vivace drumming di Russ Kunkel, il musicista nato nel Missouri ha inanellato più una trentina di album che ne hanno maturato songwriting e doti interpretative. E’ comunque solo nel 2022 con il suo eccellente “I Can Face The Truth” che la musica di Dana Cooper è riuscita ad arrivare qui da noi con una certa continuità, facendo emergere tutta la freschezza di un artista che negli anni non ha perso minimamente  smalto e ispirazione, guadagnando anzi in pienezza sonora e in cristallina brillantezza. Ora c’è un nuovo disco intitolato “The Ghost Of Tucumcari” a confermare e a testimoniare la bontà di una proposta legata ad una country music i cui echi rimandano agli anni d’oro dei primi anni settanta, con una produzione adulta dello stesso Dana Cooper con l’aiuto di Dave Coleman (anche in fase strumentale con un prezioso lavoro a chitarre elettriche, acustiche, lap steel e tastiere) e con la graditissima presenza di una corposa serie di ospiti, da Darden Smith al piano alle riconoscibili e ispiratissime voci di Hayes Carll, Libby Koch, Lyle Lovett, Susan Gibson, Shake Russell, Mando Saenz e David Starr, una buona fetta della scena roots texana. E’ comunque la qualità delle canzoni a fare la differenza, la profondità poetica di una scrittura assolutamente limpida che emoziona e coinvolge sin dall’iniziale “Start The World Again” con il supporto vocale della brava Libby Koch e una melodia solida, subito seguita da un altro momento topico dell’album, la title-track dal fascino autentico che fa rivivere il West più genuino in cui appare il grande Lyle Lovett. Spigliata e godibilissima è la melodia di “Children Of A Common Mother”, un brano in cui si intrecciano country e rock in maniera naturale, romantica e aggraziata è “What Is Love Waiting For?”, mentre più acustica e interiore è “Song For Myself”. La selezione è vincente per la convinzione con cui è interpretata e per la maestria dei musicisti coinvolti e prosegue con la convincente e incisiva “Falling Star”, il rockin’ country di “Going Down Judah” e la limpida country music di “Rocked In A Country Cradle” composta a quattro mani con un autore veterano come Josh Leo. Avvicinandoci alla conclusione c’è la bellezza acustica di un’altra ballata come “Beauty And Ruin” che precede l’unica cover del disco, una corale e appassionata “This Land Is Your Land” di Woody Guthrie in cui un po’ tutti gli ospiti si ritagliano il giusto spazio. A chiudere un lavoro rimarchevole in tutti i suoi aspetti c’è un gioiellino come “Needless To Say”, struggente momento acustico con nuovamente Lyle Lovett a regalare emozioni. Tra le cose migliori di questa prima parte di 2024. (Remo Ricaldone)