L’esodo di migliaia di famiglie verso ovest, generato dalle terribili tempeste di sabbia che afflissero gli States negli Anni Trenta, fu l’elemento chiave nello scatenarsi di quella serie di concatenazioni e incastri che portarono Bakersfield, cento miglia a nord di Los Angeles, a divenire inaspettatamente la capitale occidentale della country music. Le storie di quei migranti, costernati dalla fame e dalla necessità di dover ricostruire tutto, furono cantate nel 1976 nei versi di “California Okie” di Buck Owens, l’uomo che creò il Bakersfiled sound.

Buck era giunto in città nel 1951. In realtà si chiamava Alvis Edgar, ma preferì ribattezzarsi col nome dell’asinello che aveva avuto da bambino. Anche lui era figlio della “Dust Bowl”, la sua famiglia aveva abbandonato Sherman, in Texas, con una rocambolesca corsa in dieci su una Ford malandata che a Mesa, in Arizona, stramazzò. Lui lasciò la scuola a tredici anni per lavorare nei campi di cotone e patate, più tardi fece anche il camionista. I suoi lavoravano in aziende lattiero-casearie e frutticole dello Stato, occasionalmente si recavano nelle regioni agricole della valle di San Joaquin in California, raccogliendo verdure intorno a Tracy, pesche vicino a Modesto, carote a Porterville, cotone e patate a Bakersfield. Il sogno di Buck però era un altro. “Quando diventerò grande, non andrò a letto affamato. Non indosserò abiti usati”, si ripeteva ogni giorno e per realizzare le sue aspirazioni puntò tutto sulla musica. Imparò a suonare il mandolino e la chitarra per poi passare rapidamente ad altri strumenti, tromba, sassofono, pianoforte, batteria, pur restando sempre legato alla sua sei corde.

Prima di mettere piede in California, suonò nelle radio e s’esibì nei club dell’Arizona con un Marty Robbins ancora misconosciuto. A Bakersfield giunse con la sua prima moglie, la cantante Bonnie Campbell, e i loro due figli, Buddy e Michael, sicuro che la città, centro d’estrazioni petrolifere, avrebbe garantito grandi opportunità anche ai musicisti grazie ai suoi locali sempre pieni di operai. Owens in effetti riuscì a trovare lavoro in un club chiamato “Blackboard”, con la Bill Woods & the Orange Blossom Playboy’s band, dove suonava persino rumba, polka e samba pur di far ballare. Vi teneva concerti di notte, mentre di mattina faceva da musicista negli studi di Los Angeles, registrando per Gene Vincent, Wanda Jackson, Faron Young e altri. La fortuna sembrò sorridergli nel giro di cinque anni. Iniziò a collaborare col cantautore Harlan Howard e con lui creò la casa editrice Blue Book Music, poi firmò un contratto con la Capitol Records, ma le registrazioni non lasciarono tracce significative. Profondamente deluso, si trasferì a Tacoma per alcuni mesi e quando tornò a Bakersfield aveva idee chiare per il successo e la spalla giusta per realizzarle, il talentuoso chitarrista Don Rich, un amico sincero, leale, vero. Con lui costituì la sua band, i Buckaroos. A scegliere questo nome fu il bassista, Merle Haggard, proprio lui, il celebre cantante, un altro figlio della “Dust Bowl”, l’uomo che avrebbe sposato la sua Bonnie e alimentato con lui la leggenda di Bakersfield.

Di “okies” scampati alle tempeste di sabbia, la città e lo Stato ne erano stracolmi. Spesso si trattava di gente estremamente povera e in cerca di lavoro, ma quella working class disperata fu pure un fervido coacervo di culture, anzitutto musicali, grazie a grandi artisti come Tommy Collins, Winford Lindsey Stewar, Merl Lindsay e Woody Guthrie. Da quelle sonorità swing, blues e folk Owens trasse grande forza.

Il successo per lui arrivò con “Second Fiddle”, giunta al numero ventiquattro delle classifiche nazionali, proseguì con “Under Your Spell Again”, salita sino al numero quattro, e si consolidò con “Above and Beyond” che lanciò definitivamente la sua carriera aprendogli la strada ad una serie di singoli da Top Ten come “Foolin ‘Around”, “Kickin ‘Our Hearts Around” e “You’re for Me”. I suoi erano pezzi melodici, impregnati di ironia e ottimismo, forti di ritmi semplici, intelaiature orecchiabili e ritornelli trascinanti, assolutamente adatti per le esibizioni live nei locali honky tonk.

Sulla scorta dell’esperienza maturata in club in cui bisognava riempire le piste e far ballare, prescindendo da ogni etichetta e schematismo, Owens progressivamente elaborò un suo stile country dal suono pulito, luminoso e vibrante, ricettivo verso il meglio d’ogni genere musicale. Erano gli anni in cui spopolava Patsy Cline, ma, lontano dal tipo di arrangiamenti e linee armoniche che arrivavano dall’est, Owens codificò la sua musica abbracciando l’innovativa resa delle chitarre solid body della Fender, gli arpeggi delle “jangling guitars”, asce elettriche di dodici corde belle tintinnanti, e il sapore esotico di percussioni e pedal steel guitar. A Nashville si facevano suonare violini e pianoforti e si dava grande risalto ai cori, Owens invece evocava lo stile spigoloso di Chuck Berry e il sapore selvatico di Lefty Frizzell, mescolava ritmi rock and roll alle classiche armonie folk e alle danze europee. La scuola musicale del Tennessee era al confronto troppo dolce e sentimentale, Owens appariva più moderno e fibrillante. Così nel suo repertorio finirono il valzer di “Who’s Gonna Mow Your Grass”, il western di “Streets of Laredo”, il rock and roll di “Memphis” e “Johnny B. Good” e pezzi strumentali come la “Buck’s Polka”. Fu sempre un innovatore, mai fermo, mai appagato, si affiancò pure al banjoista Ronnie Jackson, registrando pezzi bluegrass. Si forgiò in tal modo quello che i critici definirono “Bakersfield Sound”.

Da vero rivoluzionario Buck Owens fu subito pronto a servirsi della televisione con programmi come “Buck Owens’ Ranch” e “Hee Haw”, estremamente popolari nell’America rurale. Capì inoltre l’importanza di ampliare il suo mercato e fare tournee internazionali, così alla fine degli Anni Sessanta fece il primo di molti viaggi nel Regno Unito. Con in braccio la sua Broadcaster, comprata per trentacinque dollari dal celebre Lewis Talley, suonò alla BBC Radio, fece il tutto esaurito al London Palladium e registrò lì un fortunato disco (impresa bissata in Giappone nel 1967). Fu pure un abile imprenditore. All’inizio del 1960, infatti, già in contrasto con Nashville, Owens rilevò la quota di Howard della Blue Book Music e iniziò ad autopromuoversi. Alla fine del decennio possedeva quattro stazioni radio e s’avviava ad acquistare club e locali, più tardi fu coraggiosissimo nello sfidare la Capitol Records sottraendole i diritti sulle sue registrazioni.

Il primo piazzamento alle vette delle classifiche giunse nel 1963 con “Act Naturally”. Buck quella volta fece davvero centro. Si trattava di un sottile ironia del mondo di Hollywood, delle sue logiche, delle ambizioni irragionevoli di giovani che nulla sanno di recitazione ma son pronti a farsi fagocitare da impresari senza scrupoli: “Mi metteranno nei film, faranno di me una star. Faremo un film su un uomo triste e solo e tutto quello che devo fare è agire in modo naturale… Il film mi renderà una grande star perché posso interpretare la parte così bene”. Il pezzo attirò l’attenzione di una band di successo planetario, i Beatles. Ringo Starr ne fece una cover nel 1965 e, più di vent’anni dopo, registrò un duetto con Owens, stringendo con lui un’amicizia incentrata su una reciproca ammirazione.

Il singolo “Love’s Gonna Live Here” divenne il suo più grande successo di Buck, restando ben sedici settimane al numero uno della classifica. Dopo la morte di Don Rich, nel 1974, in seguito ad un incidente in moto, Buck però cadde in depressione e non volle più saperne di fare musica. La sua carriera si arenò, il suo nome scomparve dalla circolazione. Le cose cambiarono un giorno di settembre del 1987 quando un giovane Dwight Yoakam entrò nel suo ufficio e gli chiese di unirsi a lui sul palco quella stessa sera. L’anno successivo i due pubblicarono “Streets of Bakersfield”, un pezzo dei Buckaroos del 1973 che conteneva nei suoi versi un chiaro riferimento all’angoscia degli okies ed un’accusa ai produttori dell’est: “Non mi conosci ma non ti piaccio. Dici che non t’importa di come mi sento. Quanti di voi si siedono e mi giudicano. Hai mai camminato per le strade di Bakersfield?”. La canzone raggiunse il primo posto nelle classifiche Billboard Country Music.

La notte in cui morì, probabilmente di insufficienza cardiaca, il 25 marzo del 2006, aveva lasciato da poche ore il palco del Crystal Palace, un nightclub dallo stile western. Non avrebbe voluto suonare, non si sentiva bene, ma sollecitato dai fans che erano giunti per lui da Bend, in Oregon, aveva fatto il suo spettacolo. ( Angelo D’Ambra)