L’Inghilterra ha da più di mezzo secolo avuto un ottimo rapporto con il blues. Dai primissimi anni sessanta accogliendo i nomi più importanti della scena d’oltreoceano sia per quanto riguarda il blues del Delta sia per la sua versione più elettrificata tipica di Chicago, fornendo una grande visibilità e influenzando le giovani generazioni di musicisti che, riappropriandosi di quei suoni così ruvidi e così veri, hanno potuto a loro volta creare una scena artistica creativa ed influente. E’ proprio il cosiddetto ‘British Blues a dare un impulso decisivo al revival della ‘musica del diavolo’ negli States a fine anni sessanta in un botta e risposta che ha arricchito fortemente queste sonorità. Ciclicamente abbiamo assistito alla nascita di grandi band che con le loro commistioni con il rock hanno contribuito a rendere sempre freschi i suoni blues, fornendo una versione assolutamente credibile e personalizzata. Alex Haynes è tra i più validi esponenti del blues inglese e i suoi Fever rappresentano un combo potente e roccioso che si avvale anche di una varietà di suoni a renderlo dinamico ed estremamente vario. “Howl” è il loro terzo disco, un lavoro che ci riporta ai tempi d’oro in cui veniva presentata una musica dalla grande inventiva che declinava il blues con il rock ma anche con soul e  gospel in una continua ricerca che risultava sempre stimolante. “Nervous” è l’apertura e anche uno dei momenti clou dell’album, canzone che rimanda subito per la struttura ritmica la mitica “Willie And Hand Jive” di Johnny Otis, subito incalzata da un ‘hard blues’ bruciante come “I’m Your Man” che mostra le ottime qualità chitarristiche di Alex Haynes. “Howl” è invece più misteriosa ed ipnotica, un riuscito incontro tra le paludi del Delta e lo stile tipico di un John Lee Hooker, “Shake It Up” è tra le mie preferite con quel gusto ‘sudista’ che rilegge i Black Crowes e le gloriose stagioni rock tra gli anni sessanta e i settanta, “Lonesome Shadows” vira verso il soul, “All I Got In This World” è un altro momento topico, più acustico e comunque di grande presa, “Bad Honey” è tra blues e gospel, scarna, vera, bruciante. Chiude il disco un trittico pregevole come “Solid Sender”, soul ballad sontuosa, una tosta “From Time To Time” nel più classico stile ‘chicagoano’ e “Shed My Sin”, altro blues interpretato con grande cuore ed anima. Disco candidato ad essere inserito nelle classifiche di fine anno come ‘best blues album’. (Remo Ricaldone)