I musicisti canadesi hanno spesso trattato la materia blues con grande passione ed intelligenza fornendo un contributo importante allo sviluppo ed al mantenimento di una identità culturale diversificata ed incisiva. Il 2018 si è presentato come anno ricco di proposte in questo senso coprendo uno spazio geografico che non si limita alle consolidate realtà musicali canadesi come Toronto o Vancouver ma che vede un po’ tutto il territorio rendere omaggio alle varie anime del blues americano. Queste quattro proposte hanno il denominatore comune di essere promosse da una delle migliori agenzie pubblicitarie canadesi come la Sarah French Publicity il cui lavoro lungimirante ha permesso a questi artisti di ottenere una potenziale notorietà a livello internazionale. Altro punto di contatto è la visione complessiva che i musicisti applicano ad una perizia strumentale eccellente, uno sguardo ampio che comprende i suoni elettrici di Chicago, quelli più arcaici e misteriosi del Delta e le commistioni speziate e vitali di New Orleans. Il bluesman di Ottawa JW-Jones è dei quattro quello meglio inserito nel circuito americano, apprezzato profondamente da gente come Buddy Guy (“…this young man is one of the people who will keep the blues alive…”), l’ex tastierista per la Allman Brothers Band e i Rolling Stones Chuck Leavell (“…his evolution as a musician and vocalist shine through…JW is the real deal…”) e Dan Aykroyd (“…this is an amazing blues band…”). Al decimo disco JW-Jones propone quello che è il suo classico ‘live set’, un trascinante, variegato e poderoso viaggio attraverso covers d’autore (Howlin’ Wolf, Ben Harper & Charlie Musselwhite, Bob Dylan, Albert King e Robert Cray per citare i nomi più noti) che ne disegnano contorni chiari e forti. L’ottimo stile chitarristico e gli appoggi giusti possono far dire la sua ad un musicista che può dare molto alla causa. Terry Blersh è invece l’artista più diversificato, poco propenso a rimanere confinato all’interno di un solo stile. “Play It All Day” è un disco in cui convivono felicemente rhythm & blues, rock’n’roll, tex-mex, reggae e anche jazz, con un approccio essenziale ed espressivo. Dalla leggenda del cantautorato canadese Gordon Lightfoot (una “Early Morning Rain” alla quale viene donata una felice ‘nuance’ mexican) alle due firme storiche della music ‘nera’ come Leiber & Stoller (l’azzeccata cover di “King Creole” con tutto lo spirito di New Orleans), fino ad originali eccellenti come “It’s All Right”, “Play It All Day” e “The Girl Outside My WIndow” in cui il nostro duetta con grandi ospiti le cui voci pregne di soul danno quel tocco in più, il disco si snoda con limpida musicalità e raggiunge ottimi risultati. Deb Rhymer rappresenta la ‘quota rosa’ di questo poker d’assi del blues canadese e con la sua grande musicalità e convinzione ci regala un disco che si gode dalla prima all’ultima nota. “Don’t Wait Up” vede per la prima volta Miss Rhymer aggiungere alle cover che caratterizzavano il suo disco d’esordio alcune sue composizioni e se il buongiorno si vede dal mattino, “Heartache And Trouble”, eccellente blues fiatistico, è il miglior ‘apripista’ possibile. Il blues nella sua accezione più genuina e vera fa parte del dna della cantante ed autrice canadese e qui vede la sua più autentica rappresentazione con uno sguardo a Bonnie Raitt e uno a Marcia Ball, due figure che possiamo tranquillamente accostare alla Rhymer. “Cry For Me Baby” di Elmore James e “I Got You (I Feel Good)” di James Brown sono le cover che si inseriscono nella maniera migliore nel contesto dell’album, lavoro in cui spiccano una title-track intima e intensa e poi “Giving Me The Blues” e “There’s The Door” che confermano che la strada intrapresa è quella giusta. A chiudere segnaliamo un altro bel dischetto blues, “Horns & Harps”, più recente lavoro del chitarrista dell’Ontario Lee Palmer, un godibile excursus attraverso suoni classici, pregnanti e godibilissimi, con in primo piano le armoniche di Roly Platt, vero mago dello strumento, le tastiere di Steve O’Connor ed il sax di Turner King. Da “Waitin’ On The Train” che apre le danze alla conclusiva “Isn’t That So” del compianto songwriter Jesse Winchester, l’album non ha un attimo di stanchezza o di routine, mostrando sempre quanto incisivo sia lo stile di Lee Palmer ed il suo approccio limpido e pulito, appassionato e vivace ad un genere che ha nel cuore e nell’anima. Sinuoso, caldo, piacevolissimo, il blues interpretato da Lee Palmer conquista dopo poche note e brani come “Shake ‘Em Blues”, “Good Morning Joe”, la sontuosa ballata “Old Picture, Old Frame” in cui si distacca momentaneamente dalle canoniche dodici battute per regalare emozioni pure, la pulsante e rocciosa “Rockin’ Strawberry Jam” e la sciolta “Somebody’s Daughter” ancora con la splendida armonica di Roly Platt sono il filo rosso che unisce i momenti più belli del disco. JW-Jones, Terry Blersh, Deb Rhymer e Lee Palmer nobilitano una scena che, in questi termini, ha veramente poco da invidiare ai colleghi che abitano ‘sotto il confine’. Buon ascolto. (Remo Ricaldone)